Nontiscordardimé

Myosotis spp., Boraginaceae
Ovvero: Cerchiamo ovunque l’assoluto ma troviamo sempre e solo cose…

Grandville Les fleurs animées Myosotis Nontiscordardimé ForgetMeNot 1830
J J Grandville, Les fleurs animées, Paris, 1830
«Ma come t’è venuta la povera idea dei myosotis? Non ti scordar di me, a destra; non ti scordar di me, a sinistra…», scrive il 26 agosto 1864 in una lettera ad una amica donna Marina, la marchesina con «una flora romantica in testa». Nel neonato Regno d’Italia ci si «ammala» di nostalgia e si desiderano «passioni azzurre e legami filosofici sentimentali alla tedesca» (Fogazzaro, Malombra, 1881). Il Romanticismo tedesco divampa e contagia l’Europa, ed è tinto di azzurro. Il colore dell’acqua, del cielo, dell’orizzonte.

«Ogni colore dona un particolare stato d’animo» e «una superficie azzurra appare arretrare» aveva insegnato Goethe (Farbenlehre, 1810). Generazioni di giovani tedeschi si metteranno a vagabondare per monti e valli verso l’orizzonte – l’azzurro infinito – colti da un’aspirazione – aimè! – dolorosa: perché l’infinito ha, effettivamente, la bizzarra peculiarità di essere irraggiungibile e di ritirarsi costantemente. Ma i Romantici sono irresistibilmente e funestamente attratti dalle cose naturali “cedevoli e molli”. Anche scivolare tra i flutti azzurri e morire annegati è di moda, meglio se giovani e belli e, conseguentemente, innamorati.

Per Heinrich von Ofterdingen, cantore tedesco medievale, il momento di mettersi in viaggio verrà dopo aver sognato un fiorellino blu, un nontiscordardimé. Oppure è il volto di una fanciulla? che sembra comparire tremulo all’interno della sua corolla…? Le immagini si sovrappongono e si confondono. «Nessun tesoro potrebbe risvegliare in me una così indicibile avidità. Lungi da me ogni altra brama: ardo solamente dal desiderio di vedere il fiore azzurro. Mi torna in mente incessantemente e non posso scrivere d’altro o ad altro pensare. Una sensazione come questa non l’avevo mai provata: è come se prima avessi solamente sognato o anzi piuttosto se mi fossi addormentato in un altro mondo. Infatti, nel mondo in cui vivevo, chi si sarebbe preoccupato di fiori? Né ho mai sentito di una così strana passione per un fiore…» Alla ricerca della ragazza-fiore va dunque ramingo per il vasto mondo.

Hans von Kulmbach Myosotis Nontiscordardimé ForgetMeNot  Metropolitan Museum of Art New York
Hans von Kulmbach, Ritratto di giovane uomo, 1508, (Metropolitan Museum of Art, New York). Sul retro del quadro l’immagine di una giovane donna che fa una coroncina di nontiscordardimé. Il cartiglio recita: lego con i nontiscordardimé.
Il fiore azzurro è una specie di ossimoro. Se il nontiscordardimé è un fiore piccolissimo – si può riconoscere solo chinando il capo e aguzzando lo sguardo verso terra –, il suo colore appartiene e rimanda a ciò che è immenso, all’orizzonte, verso il quale ci si può volgere solo alzando il capo e figgendo lo sguardo lontano, perdendovisi. Possiamo così spiegare perché la passione per il fiore azzurro sia «strana». E ben infelice sarà il pellegrinare dello «strano nomade», un’estenuante continuo zoomare in avanti e indietro fra messe a fuoco ravvicinate e campi lunghi che provoca la vertigine e dagli esiti prevedibilmente deludenti. «Cerchiamo ovunque l’assoluto ma troviamo sempre e solo cose.»

Non si sa con certezza se Heinrich von Ofterdingen sia realmente esistito. La sua è una storia fantastica, scritta dal visionario poeta tedesco Novalis e pubblicata postuma (1802), perché anch’egli morirà troppo presto, giovane e bello, “annegato” nella tisi, la malattia del secolo. Da qui in poi del dolce e leggermente mortifero olezzo del fiore blu non ci si libererà più. Affiora e ricompare in infinite trame e rivoli di poesia fino ad oggi. Se ne reinventano leggende falsamente medioevali che ne spiegano il nome: «Un cavaliere e la sua dama passeggiavano lungo un fiume; il cavaliere, nell’atto di raccogliere dei fiori azzurri da offrire all’amata cade nei flutti. Annegando la implora: Vergisz mein nicht!» Non ti scordar di me. Ben più elegantemente Goethe aveva scritto: «Si levò una ninfa dall’acqua… Ella gli parlò, e cantò per lui… – Non ti attrae il cielo profondo, l’umido azzurro trasfigurato? Non ti alletta la tua stessa immagine nell’eterna rugiada? – L’acqua mugghiava, e si gonfiava, lambendogli il nudo piede; il suo cuore era gonfio di struggente nostalgia, come al momento del saluto dell’amata. Ella gli parlò, e cantò per lui: allora per lui fu la fine. Appena egli si immerse ella quasi lo trascinò ed egli non fu mai più rivisto.» (Goethe, Der Fisher, 1779). Queste immagini continuano a perseguitarci anche attraverso una longeva tenera tradizione oleografica, attraverso valentini e banali monumenti funebri. Disseminate in poesie e romanzi. Ricordo, nostalgia, lontananza, fedeltà.

Cicely Mary Barker, Flower Fairies of the Garden, London, 1944, Myosotis Nontiscordardimé ForgetMeNot
Cicely Mary Barker, Flower Fairies of the Garden, London, 1944
Detto tutto ciò, possiamo ancora parlare del nontiscordardimé in cucina? No, per favore! L’idea di mangiarlo suona sacrilega. «No, non raccoglierlo: è un nontiscordardimé!» Come si stia molto, molto vagamente profanando qualcosa di indefinito (la memoria dei morti, l’amore, l’amicizia?). Magari non come mangiare bambini, ma… Le storie hanno radici lunghe e profonde e si radicano nell’anima ostinatamente attraverso i tempi, ridotte in frammenti di tradizione che si compongono e ricompongono come segmenti di DNA. Anche minuscoli incomprensibili tabu contribuiscono a farci imparare inconsapevolmente il rispetto per cose ben più importanti.


Nel nontiscordardimé, a dire il vero, c’è anche poco da mangiare. I contadini friulani, da bravi e concreti montagnini, non stavano a badare a tante sottigliezze, e di tutte l’erbe facevano un fascio. In tutto quarantadue erbe selvatiche ma c’è chi dice cinquantasei, non importa, comunque molte – tra le quali anche il nontiscordardimé –, raccolte a primavera e cucinate tutte insieme per preparare il pistic. Questo sta a significare che i contadini friulani di sottigliezze ne avevano eccome, per esempio la capacità di riconoscere questa cinquantina di erbe selvatiche commestibili che spuntano in primavera e di dare a ciascuna un nome. Alle erbe vanno aggiunti i funghi e altri vegetali mangerecci più le essenze per costruire case e oggetti le fibre per i cesti e le funi e i tessuti e così via così via, una conoscenza della botanica locale veramente impressionante. Non risolvevano le cose nell’assoluto ma l’assoluto nelle cose. Non paesaggi infiniti e intangibili ma territori concreti vissuti a capo chino e con occhio aguzzo. Con tante “cose” utili (e usabili) dentro. Tutto un’altro modo di percepire il mondo.

Georg Christian Oeder, Flora Danica, Kopenhagen, 1761-1883 Myosotis Nontiscordardimé ForgetMeNot
Georg Christian Oeder, Flora Danica, Kopenhagen, 1761-1883
Torniamo dunque al nostro buon pistic. La misticanza si sbollenta e poi si ripassa in padella con burro, aglio e lardo. Una bella zuppa densa che testimonia di una cucina arcaica, a cui fanno riscontro in Italia altre simili ricette, come il prebuggiún ligure e la minestrella della Garfagnana, le più note. Ma in tutte le cucine rurali del mondo troveremo un qualche “pistic”. Di queste pietanze a base d’erbe più che la ricetta – le possiamo chiamare ricette? –, conta il procedimento. O meglio le sequenze e le combinazioni. Partendo dagli stessi semplici ingredienti – in base alla costante variazione della disponibilità –, combinandoli in modi diversi, si possono raggiungere risultati molto vari: se abbiamo un cestino di erbe miste… le possiamo mangiare crude in insalata… le possiamo sbollentare… le possiamo condire e mangiarle così o ne possiamo fare una frittata o una torta… le possiamo ripassarle in padella o stufare o farne una frittata o una torta più gustose… possiamo utilizzarle per riempire dei ravioli… possiamo versaci del brodo o dell’acqua e diventeranno una zuppa più o meno densa… possiamo versare questa zuppa di sole verdure su un pancotto e diventerà una zuppa più ricca… possiamo tagliare la frittatta a striscioline e metterla in brodo, avremo una minestra ancora diversa… se abbiamo carne o formaggio o uova ce li buttiamo dentro… possiamo cuocerci della pasta, se è ne risultata una zuppa molto densa la possiamo gratinare. Se di erbe ce n’è poche – perché fa freddo, mettiamo – aggiungeremo più semi e legumi secchi. E così via, così via. Oggi di tutte queste “stazioni” se ne scriverebbe un libro intero affollato di ricette distinte, ognuna inclusa in una singola scheda con le sue dosi precise, i tempi di cottura e così via. La cucina cosiddetta “povera” invece non ha ricette, ma processi, un buon occhio e una buona mano.


Bibliografia

Goethe Johann Wolfgang von, Der Fisher (Il pescatore), 1779
Novalis, Blütenstaub, in Athenäum, Berlin, 1798
Novalis, Heinrich von Ofterdingen, Berlin, 1802
Goethe Johann Wolfgang von, Zur Farbenlehre (Teoria dei colori), Tübingen, 1810
Louis-Aimé Martin, Lettres à Sophie, Paris, 1811
Rambosson Jean, Histoire et légendes des plantes utiles et curieuses, Paris, 1871
Chevalier Ludwig, Der Deutsche Mythus in der Pflanzenwelt, Prag, 1876
Fogazzaro Antonio, Malombra, Milano, 1881
Gubernatis Angelo de, La mythologie des plantes, Paris, 1882
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Paoletti M. G., Dreon A. L., Lorenzoni G., Pistic, traditional food from western Friuli, N.E. Italy, Economic Botany 49, 1995
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Valtolina Amelia, Blu e poesia: metamorfosi di un colore nella moderna lirica tedesca, Milano, 2002
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Łuczaj Ł., Pieroni A., Nutritional Ethnobotany in Europe: From Emergency Foods to Healthy Folk Cuisines and Contemporary Foraging Trends, 2016

Mie le traduzioni